Il romanzo borghese non è inattuale o appassionante, è ipnotico: per questo è assimilabile al picco n della frequenza nella quale prende forma l'ego e ad esso si lega come una molecola al suo recettore. Non è un piacere, fa parte della serie degli automatismi preconsci: fa leva su necessità ancestrali di reperire informazioni utili dall’ambiente; il pettegolezzo, il cortile, il conflitto, il viaggio iniziatico, e tutti i rituali che colà si celebrano dall’alba dell’umanità fino alle stories sui social; i racconti esagerati del pescatore, le veglie attorno al falò, l'evento. La ricerca di una gratificazione o di uno scontro. Comportamenti che lasciano dubitare sulla posizione egemonica dell'umano, sul suo ruolo dismesso di padrone, di figlio di dio, di custode della Terra. A maggior ragione tali narrazioni quanto più perdono consistenza tanto più persistono nel profondo, nell'ectoderma che crea la tensione superficiale fra l'individuo e il tutto, che diventa, per successivi affinamenti, sistema nervoso, superficie sensibile via via più specializzata. Con tali premesse organiche, si comprende la ragione di persistenze che gli "specialisti" giudicano datate, che fanno storcere il naso ai sapienti, agli smaliziati e non è da escludere che per tali ragioni l’ultimo best-seller antropocenico sarà una rielaborazione del romanzo-teatro borghese, una soap opera, una grossa sega al cervello di una specie impiccata col cazzo dritto. Un po' come gli insopportabili e lunari dialoghi di TWD che dall'allungare il brodo diventano brodo, sostanza del successo di massa di un genere di culto passato a pieno titolo nel mainstream, nel dominio sterminato dell'inflazione.
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È la furia in me. È lì, sotto una crosta, come le masse liquefatte del mantello terrestre. La superficie è attraversata da linee di faglia, da terremoti, da eruzioni esplosive ma dieci chilometri o dieci secondi dopo, la quiete silvana, i cinguettii e i ronzii, l’acufene agorafobico della Testa-Natura che raccoglie e ingloba il mondo, fin dove le è concesso: innestandolo sul collo, invisibile a sé, se non per tramite di specchi, agitando arti e dita come pinze, che annaspano nella dimensione interindividuale della prossemica; il torso e le gambe che muovono la Terra-testa, la piegano, la saltano, la corrono, la nuotano, la scalano o insistono in unico fotogramma fino a maculare la retina come un vecchio monitor a circuito chiuso, sul quale rimane impressa la ripresa della telecamera fissa. Vi è un limite oltre il quale le cause, anche le più sconquassanti, si esauriscono. Ed è sempre orizzonte. Di spazio e di tempo, perché noi, schizoidi, scindiamo a nostro comodo un’unità inestricabile e vischiosa; perché sulla Terra col suo moto di rotazione e rivoluzione e l’immediatezza apparente della luce, è facile inventare la convenzione del tempo; l’ossidazione, la vecchiezza, l’entropia, la crescita ed il decadimento ci danno l’illusione di un divenire astratto, platonico. Come rappresentare la quarta dimensione superna e ineffabile? Con lo scandire di pendole, con le vibrazioni del quarzo, che sono movimenti nello spazio, che noi enumeriamo come tacche millimetriche su un metro da falegname. Con questo criterio di micro/macro misurazione/segmentazione, spingiamo la nostra speculazione all’interno della materia, dell’energia e del cosmo. Tutto infine soggiace alla soglia dell'indicibile, dove il moto ipercinetico si confonde con la stasi; siamo colti da estremofilie struggenti, un impeto romantico e carnale ci avvilisce e ci esalta senza possibilità che si risolva se non nel rientrare in uno stato di quiete. È la tensione superficiale e perimetrale, la tensione epidermica, la sua porosità con il resto da noi, che pur ci abbuffiamo di mondi, mai sazi, sempre sull’orlo di una congestione. La tela è bianca, di un bianco d’avorio, impuro e poroso ad un’assenza indecifrabile, che registriamo come sporco, come disturbo. Su questa superficie viene dipinto il mondo.