martedì 8 novembre 2022

FIAT LUX

È stato tutto un lento prepararsi, mosse meticolose in apparenza dettate dal momento vivo e le sue urgenze, il buonsenso reattivo e pacato, un vago richiamo al risparmio, di sottofondo come musica attutita da quelle che parevano pareti solide, proveniente da una casa lontana dove si consuma un dramma domestico che non ci riguarda, un tubo dell’acqua che si rompe e allaga le stanze, impregna il finto legno dei mobili svedesi a basso costo montati con cura negli weekend liberi, i libri fradici sul pavimento, i tappeti in tessuto sintetico acquistati nella medesima catena. Qualche anno fa, non saprei dire quanti oggi, ci regalarono – a tutta la popolazione intendo – un set di quelle primissime lampadine a basso consumo che emettevano un lucore tenue, rossastro all’accensione, per poi via via farsi più luminose. La luce opalescente al loro picco, si diffondeva come resina da una corteccia d'abete recisa, su suppellettili, mobilio e volti di anziani infastiditi “Già ci vedevo poco con le lampadine a incandescenza! Ma cos’è questa roba? Par d’essere al cimitero”. Ma su ogni mugugno, vinsero il richiamo - à la carte - al generico buonsenso e lo spirito di adattamento. Gli sfarzosi quartieri residenziali intanto brillavano come presepi la notte di Natale, scintillanti, domotici, serrati dietro triplici cordoni di sicurezza da manipoli di guardie armate, checkpoint sanitari, tornelli con metal detector e sbarre che si alzavano al passaggio dei SUV elettrici – blindati – che riportavano al comfort di quegli abituri sereni, riscaldati e luminosi, la prole eletta, acchittata con piumini madreperlacei e vestitini di marca di buona fattura, con i loro zainetti costosi, sotto lo sguardo vigile del Famiglio sintetico alla guida, una via di mezzo fra un Furby e un energumeno farcito di anabolizzanti. Fuori dai paradisi artificiali tutto era un terzo paesaggio nel quale, fra le crepe di una civiltà in disarmo, spuntavano ciuffi di entropia destinati a diventare intricati roveti; gli alberi del viale cadevano marci nei giorni ventosi e subito sparivano, assaliti da formicai di persone infreddolite. Qualcuno cominciò ad abbatterli poi, e ne fece mercato nero. I carretti arrugginiti dei grandi centri commerciali fantasma facevano la spola spinti con fatica fino alle case da vecchi e bambini sporchi, buttati con l’acqua sporca, trascinati su per le scale fino al settimo piano con lunghe pause sui pianerottoli per dar tempo a cuori malati e non curati di regolarizzare il loro battito, un tamburello da spiaggia, quelli con le palline di plastica, che frullavi fra le mani, nella compulsione infantile. Infine il buio appartamento di nonni e nipoti: nipoti di cui i nonni non erano nonni e viceversa. Li chiamavano Accorpamenti. Figli di genitori estinti nella Trenta/Cinquanta, bambini tratti in salvo dai barconi di fortuna dei migranti; frutti bacati di fecondazioni controllate; trovatelli abbandonati nei pressi di cliniche e centri del Culto, caserme della Milizia ecc… 

Gli anziani necessitavano di compagnia e giovani braccia per sopravvivere, così come questi fanciulli desideravano sentirsi amati. Non sempre andò bene: alcuni vecchietti incanagliti o da sempre canaglie, non si fecero scrupoli ad abusarne; alcuni ragazzetti sgamati non esitarono a far fuori i vecchi, gettarne il cadavere in qualche death-stack fuori casa e continuare a riscuotere la loro risibile pensione. Avevano un posto dove stare, un buco nel muro come i piccioni e, se vogliamo parlare di piccioni poi, come di cani o gatti, questi se la batterono a gambe verso le foreste – o ciò che ne restava sulle spelacchiate colline prese d'assalto dal racket della legna da ardere – visto che erano diventati un vero e proprio gourmet nella dieta desolante dei Cascami*. Ricordo ancora con un brivido quando canili, cliniche veterinarie e negozi di animali iniziarono, da prima sottobanco, a vendere a tranci i cadaveri di bestie soppresse; i ragazzini che un tempo non lontano a passeggio, si rimpinzavano di patatine ketchup e maionese, inghiottivano con avidità da un sacchetto trasparente pesci rossi ancora guizzanti (lo chiamavano susci con la C). Quelli che pochi anni addietro erano rifugi per animali abbandonati, ambulatori, negozi di bestiole di razza con teneri cucciolotti, pappagalli variopinti e acquari ipnotici, divennero macellerie dove sbrigativamente si squartavano gli animali domestici, si tagliavano in varie pezzature, vendute poi, passando i sacchetti di carta intrisi di sangue da un pertugio nelle saracinesche abbassate, mentre un omone intirizzito nella sua lercia canotta, teneva ben stretto fra le mani un fucile da caccia, sempre col colpo in canna, caricato a sale grosso e pallettoni, così che la morte del ragazzino furbo o del vecchio che pensava di poter fare il furbo, fosse lenta, per gangrena. Per i miti invece, vecchi o giovani che fossero, la giornata trascorreva così: la legna trascinata fino al settimo piano alimentava una vecchia cucina economica recuperata in discarica oppure un tracchilò autocostruito con lamiere o vecchi bidoni che non di rado sterminava qualche Accorpamento con le sue esalazioni di monossido; sulle piastre arroventate veniva cucinata la carne di cane o gatto o piccione – quando era festa – altrimenti sobolliva pigra e maleolente, una zuppa allungata con l'acqua piovana raccolta in un secchio. A sera, con la pancia piena (si fa per dire) il nonno era solito uscirsene con la battuta di un vecchio film italiano “E anche per oggi è andata!” scoprendo le gengive pallide di una dentiera trafugata in un ossario che gli sguisciava quasi fuor dalle labbra, in un ghigno scimmiesco al nipote. Poi i due attendevano con ansia le ore ventuno, quando sarebbe ripresa l’erogazione della corrente elettrica e dell'acqua per circa tre ore: gratis! E con gratitudine per tale gratuità, accendevano tutto: lo scaldabagno per una frettolosa doccia calda prima di coricarsi; la vecchia tv a risparmio energetico dove scorrevano fra artefatti, scattose, le immagini diafane di repliche di telequiz presentati da un insopportabile nasone dalla voce stentorea oppure qualche sceneggiato, di quelli belli di una volta, coi preti e i carabinieri, ma prima di ogni altra azione, che l'elettricità ravvivando nella memoria l'epoche liete, in quelle poche ore in cui il nonno e il nipotino illudeva beffarda del ritorno ad un oscuro benessere, la vera gioia era poter accendere, col suo fioco lucore cimiteriale, la lampadina. 


*fu data questa denominazione e status giuridico alla gran parte della popolazione.

mercoledì 13 luglio 2022

il Cane

Che l’amore sia un’espressione di egoismo lo si evince dall’ampia letteratura e aneddotica sul tema. Non si sta insieme che per rispondere a una funzione che l’altra persona ci attribuisce più o meno patentemente, e viceversa. Le si chiamino, con un’indulgenza in odore d’ipocrisia, aspettative, ma di fatto è l’infaticabile esercizio di manipolazione e sfruttamento altrui che dal tramonto delle società della partnership delinea i nostri comportamenti, anche quelli che vorremmo romantici, disinteressati, appassionati. Dove il laboratorio di chimiche pro tempore convergenti fa boom, è invece proprio lì, nell’intimità, coadiuvati dalle voci sussurrate nell’alcova si articolano raggiri, si programmano ricatti, si perviene in casi limite non infrequenti a violenze fisiche e psichiche: vi ricordate quelle piccole scacchiere magnetiche da viaggio? L’amore è questo: è in piccolo una guerra, una strategia commerciale, un progetto impattante, che sfruttando la fragilità di chi vi si espone, disattiva o comunque obnubila il libero arbitrio, la capacità di dire NO. Per tali motivi, moltissimi in questi tempi durante i quali l’amore sarebbe pure a buon mercato, preferiscono il cane o altro animale d’affezione, che sicuramente ci priverà del pepe del senso critico, del confronto, delle gioie dell’amplesso, ma ci donerà un amore assoluto, scevro di giudizi, una costante insomma che nella precarietà franante del presente, seppur in chiave minore, aneliamo come aria. Anche questa fame di un amore assoluto, a ben vedere, una forma di egoismo… possiamo latrare alla luna, qualcosa in cui l’alcol ci rende formidabilmente dotati. 

lunedì 27 giugno 2022

Hamistagan

"Nel testo zoroastriano del IX secolo Dadestan-i Denig ("Decisioni Religiose") l'hamistagan è un luogo o uno stato in cui le anime di chi in vita ha commesso lo stesso numero di buone e cattive azioni attendono il Giorno del Giudizio. Nel frattempo chi ha agito rettamente prova la beatitudine, mentre chi ha agito malvagiamente soffre atroci tormenti."

fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Hamistagan

Iperboli ovunque. Si direbbe che persino le unghie sudino, che dalla superficie di cheratina compatta, gocce, microscopiche sfere si addensino come aliti su vetri gelidi a formare un rivolo che a sua volta, si raccoglie in una pesante e grossa goccia sulla punta dell'indice e sfidando la forza di gravità, permane gonfiandosi, sempre più; ma le unghie non sudano così come la polvere non genera pulci; si rammentino i giugni miti della recente preistoria climatica, quando si era soliti sudare con discrezione: adesso è una scure che taglia di netto tubi e vescicole ricolmi.  Adesso è una scure.

Dondolano dalla finestra le dita con le ultime sigarette prima dello STOP programmato a una settimana da adesso, ciondolano e stizzano via la cenere che risale le correnti ascensionali e ritorna in casa, depositandosi come coriandoli albini sul nero della t-shirt o sul glabro petto nudo. Pensare con soddisfazione all'amore e stirarsi, appoggiando il cazzo sul davanzalino di marmo della finestra; pensare a tutto ciò che la memoria ha smesso di trattenere, dilapidando il suo capitale di studi, letture ed esperienze, come accade a certuni sfasciatissimi e sordidi loro malgrado con le loro deiezioni. Ciò che s'impara e si è letto scorre via in liquame; si confida in un deposito, una concrezione profonda, laggiù, un embrione che pare si rianimi tramite uno stimolo inatteso: il miracolo, il caso di una parola che schiuda, la ripresa degli studi, la mera compulsione… sempre più spesso la creaturina che risorge non ha volto, non ha nome, né una data di nascita. La si chiama "Cosa" e di essa si può dire che può "cosare". Si assiste così a processioni sconclusionate, alla deriva per le stradine di un paese ignoto, dove vengono portate a spalla figure di manichini – talvolta, neppure antropomorfi, bensì convolvoli di muscoli e braccia, dita e intestini, come le figurazioni perturbanti del deep dream – ma di plastica bianca, lucida come glassa sotto il sole che non svela e il mormorio dei fedeli che le accompagna è lo scorrere di quei liquami che si è incapaci di trattenere, guardando con imbarazzo e indignazione, un infermiere scocciato che a dispetto di ciò, debba nettarci l'ano raggrinzito.

mercoledì 11 maggio 2022

Le Miserie del Cazzo

Ai maschi di un certo tipo, che lascerò vago nei suoi contorni, un po’ sfigati, ma non decisamente sfigati, basta fare un buco in terra e anche se fosse un nido di formiche di fuoco, ce lo infilerebbero. Come certi affamati che si mangerebbero la merda, i topi, le carcasse dei cavalli o di coloro che, morti d’inedia li hanno preceduti. Una vita feroce, guidata da un sistema nervoso enterico in preda agli spasmi che, a un bel momento, si è sovrapposto alla ratiosupremazia claudicante della corteccia, al suo dominio fallace. 

Poi ok: sì, il testosterone, c’è il testosterone, il “palletico” come dicono i toscani di cui mi fa uggia quasi tutto, in particolar modo certe espressioni rozze ma vivide… il palletico è una forma ansiosa e compulsiva, un'irrequietezza tutta viscerale, testicolare, una prurigine senza oggetto che solo la pratica di un sesso sfrenato e indifferenziato o una sbronza ottusa possono lenire; è il peregrinare di animali in cattività nella loro gabbia interiore, ossessi da un destino nitido: una promessa di naufragio che viene mantenuta puntando dritto la prora del cazzo su scogliere che affiorano dai marosi della botta. Non è nemmeno autolesionismo. C’è una residua intenzione ma infine prevale la corrente sotterranea della specie che seleziona i fragili scafi al loro fine ultimo di frangersi. Quando accadrà? Quante volte l’abbiamo scampata? Quante volte il terrore di morire ci farà sbiancare e frignare appena un nanosecondo dopo aver sbraitato insensatezze sul libero arbitrio? Ecco lì il canyon che reclamavi, adesso è a un passo. Ecco lì il nido di formiche urticanti per il tuo cazzetto teso dal cialis. È tutto pronto, imbandito sul margine oltre il quale anche i pettoruti invocano la mamma. DFW ripete più volte che la donna che ti uccide è la donna che ti partorirà a nuova vita. Madre e morte. O viceversa: cosa avvelena questa catabasi intrapresa da principio con passo agile? A ben vedere solo sensi di colpa: aver deluso noi stessi perché proprio sulla retta via della saggezza e della sobrietà abbiamo scoperto la libertà di farsi male – c'era un goblin sotto il ponte d'arcobaleno della redenzione – e che questa libertà come ogni altra è uguale, nessun giudice, nessuna morale d'accatto, solo consigli cauti di qualche cerusico malpagato per elargirli senza entusiasmo. Ma l’amore, nemmeno l’amor proprio c’entrano un cazzo; la vertigine ci attrae come un buco nero e a un certo punto ogni resistenza è vana e le belle e buone parole vanno nel compost insieme a gusci d’uovo, alle bucce d’arancia, ai fazzoletti moccicosi e a briciole di varia indefinibile natura. 

sabato 7 maggio 2022

Proemi Eremitici

La solitude è un verme, una scatola, uno spazio infinito in un corpo finito, un’assenza dove si aspettava una presenza, una spiegazione in una lingua sconosciuta a un interlocutore svanito, il freddo sette della cicatrice inerte che si manifesta sottoforma di spilli sottocutanei come una bambola voodoo alla rovescia, la parola sulla punta della lingua quando ne abbiamo smarrito i presupposti e il ragionamento si è infranto in nembi come una tromba d'aria che si smonti delle sue correnti vorticose; il cacciavite quando chiedi il pane, l’acqua che si nega al cretto del fiume arido che si snoda verso il mare: lagune melmose, sabbiosa insolenza che affiora, amicizie sabotate, silenzio, molto spesso è silenzio perché la voce senza ascolto esaurisce la sua ragion d'essere e così gli organi fonatori si atrofizzano. Ma se fosse solo questo, non sarebbe un gran male: è che la solitudine ti cerca, è la miseria che ti cerca come un amante molesto, come un esattore e come un predatore brama la sua preda. Anche così si potrebbe accettare: ma se la solitudine fosse la materia stessa del tuo corpo, delle tue cellule, e come queste cellule mutasse  incontestabile nella sua replicazione? Se fosse un marchio nucleotidico impresso alla nascita, non meno del colore dei tuoi occhi o dei tuoi capelli e pur circondato da mille persone, trovassi in quelle loro stesse cellule, la medesima barriera, il respingersi dei poli uguali della calamita, la repulsione. E se inoltre fosse un destino? La trama già scritta e prevedibile di una storiella come tante, quei sentieri che si sa dove portano, ben tracciati e segnati: una sicurezza in fondo che protegge da psicosi e falsi allarmi. Un abbraccio che ci si dà quando il freddo alieno dell'altra certezza che abbiamo c’investe e ci stropicciamo con le mani algide sotto le braccia, a riscaldare per frizione meccanica quelle cellule riottose al calore quanto ne sono affamate. Soprattutto, qualsiasi cosa essa sia è irrimediabile e beffarda come ogni consolazione. Forse, incontaminata dal vociare e dai sussurri, dalle promesse che si fanno ubriachi, sarebbe anche tollerabile: non avesse aspettative, reclami, interruzioni festose quanto sospette, fosse quieta come un lago, appena increspata da brezze di vita, se ne stesse al suo posto a occupare crateri e vuoti che non si possono riempire d’altro. Forse così, come quest’ultima estate senza nessuno, a braccetto alla paura e alla volontà come chi è zoppo, o mutilo: le due brave comari brutte, una per parte, a sostenere l'afflosciata complessione nel suo ramingare. Era meglio così dell’illusione, degli specchietti rilucenti di amicizie e amori famelici, dipendenze minori e insidiose, sigarette dal balcone che tracciano una parabola di fumo ed esplodono scintile sulla strada. Qualche babbeo saggio lo capì bene e se ne venne fuori con la frase “meglio soli che…” il resto è astioso, piuttosto stupido, orgoglioso. Non c'è un “meglio” è così punto: è carne non meno dell'attesa di finali noti; non condizione, né scelta. È tutto quello che sei, che hai, che avrai, dalla culla alla tomba. È la guida esatta che conduce dal vagito al rantolo, e pur prossimi o lontani che siano l'uno dall'altro, il solo dato ci è noto di quelle smorfie scomposte, speculari, parallele a generare infiniti riflessi che degradano nell'oscurità, riflessi di una figura solida che non c'è, o se c'è è in fuga, così la foto viene mossa, questa antica ossessione di cogliere l'attimo, di esser parte di un disegno.

martedì 4 gennaio 2022

Erotocene

Proust in  "Un Amore di Swann" descrive con garbo, ma senza lasciare nulla di sottaciuto, l'evolversi di un amore, dalle battute iniziali al suo disfacimento (che esiterà fatalmente nel matrimonio); ne descrive le circostanze sociali, le false amicizie che lo intrappolano come una camicia di forza nei rituali frivoli, la costruzione dell'amore delicata, fragilissima, fatta di giochi e codici che si creano fra gli amanti, che impercettibilmente vira nella costruzione di falsità, autoinganni, omissioni – dove il donarsi diviene negarsi e giorno dopo giorno ci si perde, quasi senza accorgersene – nonostante ci si sottoponga a una disamina spietata e ci si possa ritenere, nel momento in cui si vive nel corpo la decomposizione dell'amore, come vermi che lo finiscono di spolpare, che esso sia ancora sano o no, annebbiati da affezioni tarlate, che negli anni ci hanno reso familiare l'estraneo che ci accompagna, che ha cercato di amarci e non ci ha mai amato – una domesticazione reciproca come fra un cane e il suo "padrone"; l'uso di questa parola non sottintende disparità, ma è solo per  definire un esempio lampante di reciproca domesticazione, un'interazione falsata dal concetto di possesso, da un'etologia approssimativa. 

Mentre dovrei macerare qui, in questi scritti, il Gran Canone della Contemporaneità, arrovellarmi su storie che vedano protagonisti basalti e coproliti, oppure recuperare le coordinate della nuova psichedelia, emendata d'ogni residuo cialtronesco dai gran farmacologi, ridurre tutto a una scienza stantia che si ciba dello stesso razionalismo che corroborò a suo tempo i falsi miti della razza, della "civiltà superiore" e del "primato umano" – mentre, anziché scrivere saggi fitti di rimandi che li rendano corazzati a peer-review distratte o compiacenti, e in quella densa trama dove rimbalzano le prediche che non si praticano, cadendo da trapezi scivolosi, con le mani sudate del ciccione occhialuto, che è il nocciolo della mia pesca, anche ora che ho smesso di tremare, di sudare, pur restando un misero come tanti, un pusillanime davanti alla Morte, parlo di amore.

È in quel laboratorio sguarnito, abusato, che si sviluppano la socialità, la riproduzione o comunque il legame fra individui distinti – è lì che la chimica organica compie l'arco della propria parabola ormonale, dove in principio si secernono sostanze, droghe naturali, endorfine, si formano gli stati sospesi di coscienza e, nell'ambiente esterno troviamo rinforzi nelle melodie, nelle visioni, come la musica che commuove Swann perché non è più un paesaggio commovente in sé, da descriversi con pedanteria, ma la chiave di decrittazione di un file zippato, zeppato di emozioni e reminiscenze, che tutti preferiscono tener sigillato; siamo antropologicamente programmati per attivare processi di questa fatta, (doorway effect) per dimenticare entrando in una stanza e ricordare dolorosamente tutto ciò che si è perduto aprendo un cassetto, ritrovando un biglietto o, per caso, in strada, osservando un albero di acero con le sue foglie rosse d'autunno.

Aveva ragione Braibanti, la biochimica non riduce ma amplia lo spettro dei comportamenti umani, ci estende agli altri viventi, ci alloca in continuità con l'ambiente; lo pensavo (erroneamente) in contrasto a Koestler, ma la loro lotta per le "forze della vita" in perenne conflitto con l'entropia e la reductio a machina, macchina di reazioni, come vuole una visione scientifica miope che procede con arroganza, overflow d'informazioni non elaborate, semplificazioni audaci e fuori luogo. Questo è il fantasma dentro la macchina vivente, non propriamente un'anima, un demone, uno spettro, ma come il fantasma, lo sfuggente, il riflesso della mano di una dama su di una antica specchiera (che poi scopri essere un quadro, il volto dell'assassina in carne e ossa che si mimetizza fra i volti del dipinto) il riflesso di qualcosa/qualcuno che non può essere ma è, proprio lì sul vetro di una finestra socchiusa: sbianchi di terrore ed è scomparso; è la densità dei miliardi di frammenti del vetro infrangibile che si infrange, i granelli di sabbia che Democrito lasciava scorrere nella mano chiedendosi quale fosse la dimensione ultima della materia, l'atomo e le particelle ancora più minute e sfuggenti che lo compongono, sazie di vuoto, spettrali anch'esse, eppur fondanti, capaci di creare legami inscindibili la cui violazione genera una così immane energia da radere al suolo una città e lasciarla inospitale e radioattiva per millenni – ma anche laddove la violazione è avvenuta, la vita caparbiamente si ripropone, muta, lo stelo sottile di un'erbaccia sfonda la distesa di asfalto ormai priva di manutenzione; microscopiche alghe allignano su microscopici frammenti di plastica – il fantasma torna a comparire e di lui possiamo soltanto rinvenire impressioni sfocate come psicofonie sul nastro dei nucleotidi che ogni giorno, da milioni di anni, scrive la vita, la morte, la successione, e definisce i termini di un contratto o di una negoziazione o di una lotta incessante con l'inorganico cui tende, al quale sfugge – amicus e hostis non si dà l'uno senza l'altro – .

Ho fatto un sogno d'intransigenza, di fuga, di dignità ultima, quando te ne vai perché qualcuno ti chiede di restare, e nessuno lo fa con autentico convincimento; mi aggrappo solo alla mia confusione mentale, in quell'ambiente familiare diventatomi ostile, mi trattengono, perché in quella casa che ho abitato a lungo non ritrovo più i miei vestiti, le mie carabattole, quegli apporti insignificanti della mia spettralità acquisita, capaci di risvegliare catene mnemoniche, capaci di commuovermi come il povero Swann ascoltando quel brano. Sono gli amici intorno, nel sogno, l'elemento disturbante, d'improvviso alieni, impacciati, scocciati; sono loro che ci hanno tenuti insieme pietosamente: come imbalsamatori hanno trafficato a lungo sul corpo defunto dell'amore, ma non sono riusciti a impedire il proliferare di muffe e comunque non era compito loro – non per questo sono innocenti – diventeranno ostili o indifferenti, presenze diafane, mortinpiedi, da attraversare di fretta, come certe presenze che i trisavoli incrociavano in calesse a notte nei pressi dei cimiteri o di certi crocicchi; muovono le labbra senza profferire parola, grazie alle cuffie che isolano dai suoni esterni tramite un algoritmo di taglio attivo delle frequenze; ma anche ascoltandoli? Saprebbero solo continuare a farmi male, trasformare il pietismo di comodo in spietata indifferenza, infine in cattiveria – il cattivo è sempre "prigioniero" diceva Braibanti, invitandoci a non confondere pietà con compassione: se la prima è per certo espressione di ipocrisia pelosa, la seconda è qualcosa che a lungo non ho provato, se non sotto forma di vorace necrofagia sul corpo dell'amore che non è più, né potrà più essere; una fame che incontra solo ossa spolpate. 

Swann infine, angosciato dall'idea di perdere l'amore anche solo come tormento, come ricordo, cede, e di Odette, in un ultimo memorabile paragrafo, pieno di ironia, enumera solo i difetti: le borse sotto gli occhi, la vacuità, la pochezza.  È in quel punto che anche la grassa larva della compassione, muore a sua volta; le ossa sbiancate attendono la calcinazione. Polvere alla polvere, a formare gli strati infiniti di mondo su cui gironzoliamo, per la gioia dei novissimi pionieri della narrativa post-umana, dei geologi-poeti che cercano nelle pietre, non immotivatamente, le origini e le ragioni del vivere.