Proust in "Un Amore di Swann" descrive con garbo, ma senza lasciare nulla di sottaciuto, l'evolversi di un amore, dalle battute iniziali al suo disfacimento (che esiterà fatalmente nel matrimonio); ne descrive le circostanze sociali, le false amicizie che lo intrappolano come una camicia di forza nei rituali frivoli, la costruzione dell'amore delicata, fragilissima, fatta di giochi e codici che si creano fra gli amanti, che impercettibilmente vira nella costruzione di falsità, autoinganni, omissioni – dove il donarsi diviene negarsi e giorno dopo giorno ci si perde, quasi senza accorgersene – nonostante ci si sottoponga a una disamina spietata e ci si possa ritenere, nel momento in cui si vive nel corpo la decomposizione dell'amore, come vermi che lo finiscono di spolpare, che esso sia ancora sano o no, annebbiati da affezioni tarlate, che negli anni ci hanno reso familiare l'estraneo che ci accompagna, che ha cercato di amarci e non ci ha mai amato – una domesticazione reciproca come fra un cane e il suo "padrone"; l'uso di questa parola non sottintende disparità, ma è solo per definire un esempio lampante di reciproca domesticazione, un'interazione falsata dal concetto di possesso, da un'etologia approssimativa.
Mentre dovrei macerare qui, in questi scritti, il Gran Canone della Contemporaneità, arrovellarmi su storie che vedano protagonisti basalti e coproliti, oppure recuperare le coordinate della nuova psichedelia, emendata d'ogni residuo cialtronesco dai gran farmacologi, ridurre tutto a una scienza stantia che si ciba dello stesso razionalismo che corroborò a suo tempo i falsi miti della razza, della "civiltà superiore" e del "primato umano" – mentre, anziché scrivere saggi fitti di rimandi che li rendano corazzati a peer-review distratte o compiacenti, e in quella densa trama dove rimbalzano le prediche che non si praticano, cadendo da trapezi scivolosi, con le mani sudate del ciccione occhialuto, che è il nocciolo della mia pesca, anche ora che ho smesso di tremare, di sudare, pur restando un misero come tanti, un pusillanime davanti alla Morte, parlo di amore.
È in quel laboratorio sguarnito, abusato, che si sviluppano la socialità, la riproduzione o comunque il legame fra individui distinti – è lì che la chimica organica compie l'arco della propria parabola ormonale, dove in principio si secernono sostanze, droghe naturali, endorfine, si formano gli stati sospesi di coscienza e, nell'ambiente esterno troviamo rinforzi nelle melodie, nelle visioni, come la musica che commuove Swann perché non è più un paesaggio commovente in sé, da descriversi con pedanteria, ma la chiave di decrittazione di un file zippato, zeppato di emozioni e reminiscenze, che tutti preferiscono tener sigillato; siamo antropologicamente programmati per attivare processi di questa fatta, (doorway effect) per dimenticare entrando in una stanza e ricordare dolorosamente tutto ciò che si è perduto aprendo un cassetto, ritrovando un biglietto o, per caso, in strada, osservando un albero di acero con le sue foglie rosse d'autunno.
Aveva ragione Braibanti, la biochimica non riduce ma amplia lo spettro dei comportamenti umani, ci estende agli altri viventi, ci alloca in continuità con l'ambiente; lo pensavo (erroneamente) in contrasto a Koestler, ma la loro lotta per le "forze della vita" in perenne conflitto con l'entropia e la reductio a machina, macchina di reazioni, come vuole una visione scientifica miope che procede con arroganza, overflow d'informazioni non elaborate, semplificazioni audaci e fuori luogo. Questo è il fantasma dentro la macchina vivente, non propriamente un'anima, un demone, uno spettro, ma come il fantasma, lo sfuggente, il riflesso della mano di una dama su di una antica specchiera (che poi scopri essere un quadro, il volto dell'assassina in carne e ossa che si mimetizza fra i volti del dipinto) il riflesso di qualcosa/qualcuno che non può essere ma è, proprio lì sul vetro di una finestra socchiusa: sbianchi di terrore ed è scomparso; è la densità dei miliardi di frammenti del vetro infrangibile che si infrange, i granelli di sabbia che Democrito lasciava scorrere nella mano chiedendosi quale fosse la dimensione ultima della materia, l'atomo e le particelle ancora più minute e sfuggenti che lo compongono, sazie di vuoto, spettrali anch'esse, eppur fondanti, capaci di creare legami inscindibili la cui violazione genera una così immane energia da radere al suolo una città e lasciarla inospitale e radioattiva per millenni – ma anche laddove la violazione è avvenuta, la vita caparbiamente si ripropone, muta, lo stelo sottile di un'erbaccia sfonda la distesa di asfalto ormai priva di manutenzione; microscopiche alghe allignano su microscopici frammenti di plastica – il fantasma torna a comparire e di lui possiamo soltanto rinvenire impressioni sfocate come psicofonie sul nastro dei nucleotidi che ogni giorno, da milioni di anni, scrive la vita, la morte, la successione, e definisce i termini di un contratto o di una negoziazione o di una lotta incessante con l'inorganico cui tende, al quale sfugge – amicus e hostis non si dà l'uno senza l'altro – .
Ho fatto un sogno d'intransigenza, di fuga, di dignità ultima, quando te ne vai perché qualcuno ti chiede di restare, e nessuno lo fa con autentico convincimento; mi aggrappo solo alla mia confusione mentale, in quell'ambiente familiare diventatomi ostile, mi trattengono, perché in quella casa che ho abitato a lungo non ritrovo più i miei vestiti, le mie carabattole, quegli apporti insignificanti della mia spettralità acquisita, capaci di risvegliare catene mnemoniche, capaci di commuovermi come il povero Swann ascoltando quel brano. Sono gli amici intorno, nel sogno, l'elemento disturbante, d'improvviso alieni, impacciati, scocciati; sono loro che ci hanno tenuti insieme pietosamente: come imbalsamatori hanno trafficato a lungo sul corpo defunto dell'amore, ma non sono riusciti a impedire il proliferare di muffe e comunque non era compito loro – non per questo sono innocenti – diventeranno ostili o indifferenti, presenze diafane, mortinpiedi, da attraversare di fretta, come certe presenze che i trisavoli incrociavano in calesse a notte nei pressi dei cimiteri o di certi crocicchi; muovono le labbra senza profferire parola, grazie alle cuffie che isolano dai suoni esterni tramite un algoritmo di taglio attivo delle frequenze; ma anche ascoltandoli? Saprebbero solo continuare a farmi male, trasformare il pietismo di comodo in spietata indifferenza, infine in cattiveria – il cattivo è sempre "prigioniero" diceva Braibanti, invitandoci a non confondere pietà con compassione: se la prima è per certo espressione di ipocrisia pelosa, la seconda è qualcosa che a lungo non ho provato, se non sotto forma di vorace necrofagia sul corpo dell'amore che non è più, né potrà più essere; una fame che incontra solo ossa spolpate.
Swann infine, angosciato dall'idea di perdere l'amore anche solo come tormento, come ricordo, cede, e di Odette, in un ultimo memorabile paragrafo, pieno di ironia, enumera solo i difetti: le borse sotto gli occhi, la vacuità, la pochezza. È in quel punto che anche la grassa larva della compassione, muore a sua volta; le ossa sbiancate attendono la calcinazione. Polvere alla polvere, a formare gli strati infiniti di mondo su cui gironzoliamo, per la gioia dei novissimi pionieri della narrativa post-umana, dei geologi-poeti che cercano nelle pietre, non immotivatamente, le origini e le ragioni del vivere.