martedì 28 dicembre 2021

Il Paradigma dell’Inadeguatezza

Un commento in risposta al pezzo pubblicato su LGE “ Il Cosmologo e il Ciarlatano” https://lagrandestinzione.com/2021/12/22/il-cosmologo-e-il-ciarlatano


Innanzitutto qual è il vostro paradigma? Non lo dite: non è che non lo si capisce perché siamo tutti rincoglioniti. Vediamo vari personaggi dell’ultimo atto di questa tragicommedia umana agitarsi nebulosi sullo sfondo nitido di un crollo al rallentatore: hanno appena spento le luci in sala e sul palcoscenico salgono i baroni,    i saltimbanchi e infine, le Cassandre, che a tutti gli altri, ancora presi come in un incanto nel voler salvare vecchie capre e cavoli, additano il rapido incombere della sventura, l’Esattore Cosmico che s’approssima minaccioso a presentarci il salatissimo conto agrilogistico. Ostentando la pistola fumante, muovono un’accusa circostanziata: è stata l’umanità. A conforto di questa tesi le testimonianze di studiosi, climatologi, scienziati ecc… che hanno incastrato la colpevole: ha lasciato ovunque il suo dna, le sue tracce, i mozziconi di sigaretta e le microplastiche, i pesticidi e le chiazze di sangue. Il pubblico in sala, nonostante il plot abusato, si appassiona, tace, qualcuno tossicchia. L’aspetto affascinante e osceno, nel senso etimologico del termine, di questa storia trita e ritrita è che tutto accade fuori da essa; durante la rappresentazione di per sé fittizia brucerà tutto il teatro, al rallentatore, senza che scatti un allarme, come il tetto di Notre-Dame, nulla di apocalittico in principio, sarà il monossido ad assopire e uccidere dolcemente tutti prima del bbq: il pubblico, gli attori, i figuranti e anche le Cassandre. Come direbbe Larkin, alla morte non frega se frigni o sei coraggioso. Non mi si fraintenda, non è la citazione di una poesia formidabile usata per fare una sparata cinica contro la consapevolezza che deve essere febbrilmente perseguita o  perlomeno esserne perseguitati, ma vedere in anticipo su altri, presi ancora a baloccarsi con i loro gingilli culturali, i prodromi del collasso, non significa automaticamente avere nuovi paradigmi. Se si possiedono, vengano esibiti senza indugio, e con la massima urgenza! E non si può nemmeno, ogni volta, chiamare in causa gli altrui insanabili vizi di forma, le merde pestate da Agamben o Wu Ming, per poi calciare la palla in fuori gioco. Costoro, come chi reclama nuovi paradigmi, non sono in grado di formularne,  se non attaccandosi a concetti e forme consumate, derivative, esauste, perché appartengono (apparteniamo) alla stessa rappresentazione: suoniamo tutti nell’ orchestrina del Titanic e chi non sa suonare, balla, si tuffa, urla o annega. 

La pandemia (che è solo un assaggio) ha sistematicamente messo in crisi e in conflitto fra loro i nostri modelli di socialità, democrazia, cultura: si stanno frantumando di fronte alle implacabili dinamiche del contagio. Stiamo parlando - è vero - di una debacle antropologica senza precedenti, nonostante TINA abbia documentato alcuni scenari accaduti o in potenza, finora siamo stati pieni di una sicumera data da tecnologie incalzanti e mimetiche rispetto alla magia, da un benessere (non condiviso) da una relativa sicurezza rispetto ai patogeni (nonostante i tratti endemici delle malattie oncologiche e cardiache, o depressive, vere e proprie epidemie sociali) che ci hanno

permesso di languire negli psicologismi, nei giochetti di potere più o meno atroci, negli sgambetti; il dispetto, la piaggeria, l’intersiziale, sono stati i margini di manovra per la maggior parte degli operatori culturali fino all’altro ieri; mai avremmo pensato di ritrovarci così disperatamente soli, divisi, afoni e soprattutto, maldestri. Non solo come singoli o privati cittadini: le arti, la letteratura, la filosofia, la musica, le scienze, i nostri strumenti cognitivi si sono rivelati forbicine stondate, lucine di natale calate nell’abisso che si è aperto come un sink hole improvvisamente nel cuore della civiltà. Le avvisaglie e le Cassandre ci sono state, ma sono state ignorate perché parte della rappresentazione; Improvvisamente il mondo che avevamo esplorato e che alcuni credevano di tenere in pugno si è rivelato alieno, ma in questa alterità si sono aperte terre incognite, per le quali vale la pena provare, nei miei molti limiti, a essere propositivo e se anch’io pesterò una merda, pace; proverò a formulare un paradigma esplorativo necessariamente insufficiente, visto che è ciò che a gran voce e da tempo si richiede, e non posso più ignorarlo. 

La mia proposta è l’inadeguatezza. 

Partiamo da ora, hic et nunc; restiamo alla situazione in divenire; siamo ad oggi, oltre che artefici di uno sfruttamento scellerato del pianeta, pervasi da una totale inadeguatezza, che ci fa credere incapaci di rimediare il danno arrecato, tanto che sarebbe opportuno chiedersi se quello

che si è prodotto sia davvero un “danno” fuor che per noi stessi e per le forme di vita che ci sono contemporanee o un “innesco” un trigger, per l’origine di una forma nuova, ibrida: sto pensando a Chernobyl. Siamo solo degli adolescenti che hanno sfasciato casa mentre mamma e papà erano via nel weekend? Nel filmetto i genitori tornano, fanno una ramanzina ai pischelli e ripuliscono casa. Nella realtà non è così: siamo orfani, o tutt’al più genitori e figli di noi stessi; la casa non è nostra, nemmeno in affitto, men che meno in comodato d’uso, ma coabitiamo e siamo abitati da essa in un rapporto simbiotico e parassitario, conflittuale e cooperativo a fasi alterne o sovrapposte, suscettibile di variazioni imprevedibili. Abbiamo scarsa concezione delle soglie, ignoriamo molti trigger di attivazione e disattivazione. Viviamo annidati in una trama come acari, avviluppati in essa, senza alcuna finalità nota: non ci sono all’orizzonte un Pasteur, o uno Jenner, capaci di sviluppare “paradigmi controintuitivi”. Non potrebbe oggi nascere l’idea geniale di “vaccino” perché la nostra epoca ha (e continua a farlo) incoraggiato i leccapiedi, i conformisti, gli specialisti e gli ierofanti a guardia del fortino; ha irriso i visionari come i miserabili, e questo piccolo “psicodramma familiare” del primate glabro, di per sé squallido, ma di poco conto, non è nemmeno il problema, perché le mutazioni del nostro habitat spazzeranno via tutto il baraccone. 

Allora sì, il paradigma emergerà con forza, perché saremo privi di ricovero, di palcoscenico, di costumi e titoli da esibire, ci resterà un corpo nudo (o più corpi) investito dal senso di inadeguatezza, dall’urgenza; lo stordimento, che prima o poi passerà, ci lascerà traumatizzati, ammesso che sopravviviamo, e da quel trauma magari riprenderemo a costruire una cultura antropocentrica con le dipendenze e consorterie che ne derivano. Ma potremmo fare diversamente? Ripensiamo alla zecca di Deleuze, alla sua agentività come zecca. Per noi dovrebbe essere differente? Certo, lo stupore iniziale è scioccante, come picchiare forte in macchina: è lo sgomento dei militari che alla fine lanciano l’atomica sui marziani, e l’atomica ai marziani fa come il nonno alla nonna. Cosa sconfigge i marziani? - dove per marziani s’intenda metaforicamente una condizione di diffusa ostilità percepita - Il raffreddore (almeno nella geniale e ancora attuale visione di Wells). I microorganismi da cui deriviamo, che ci compongono, che ci coabitano, che ci permettono di digerire, di pensare, o che possono ucciderci senza malanimo alcuno. Equanimi. 

In ogni modo, non sarà giocando a palla avvelenata con il “paradigma” che troveremo i paradigmi: siamo sincronici e incatenati agli eventi in continuo divenire di cui facciamo parte e per i quali non siamo preparati; non abbiamo, né possiamo avere una visione long term, visione di gioco, perché la caligine del teatrino in fiamme ci avvolge e sonnecchiamo intontiti dal monossido, sognando che tutto infine resti com’è, una rappresentazione, che il Titanic resti come eternamente in sospeso fra lo

stare a galla e l’affondare e ci incistiamo in una sacca dì sospensione temporale, una bolla democristiana, di moderazione, come nelle malattie croniche stabilizzate in un plateau indefinibile, un’eternità effimera, confortevole, fino al successivo cedimento, un’orbita dì parcheggio, la caduta senza impatto; la saturazione cola a picco, non solo gli ignoranti impenitenti, non solo chi ha ignorato coscientemente Cassandra (i superstiziosi) o Laocoonte (i soliti che sghignazzano); paradossalmente dunque non stiamo assistendo ad una tragedia come rappresentazione o catarsi, perché ne ignoriamo deliberatamente la sua realtà come dato fattuale e sfuggente; è come se fossimo privi di un senso in grado di percepirla (gli antichi avevano i veggenti per tale scopo) siamo incapaci di formulare in corsa (in fuga?) una ritrattazione in tempo reale del contratto sociale e biologico - ci sono delle teorie, ma sono pezzi di lego sparpagliati sul tavolo, ancora da assemblare - sono i giocattoli sgangherati di cui parla Morton con cui però nessuno gioca – inadeguatezza, anche rispetto a ciò che si è creato, alle macchine ultraveloci, nelle quali abbiamo introiettato il nostro sogno irrealizzabile della velocità di adattamento, di trasformazione, di evoluzione o emendamento, quando biologicamente siamo gli stessi da circa trecentomila anni; di questi, abbiamo trascorso gli ultimi dodicimila, a dire agli altri cosa fare, grotteschi, mossi da qualche appetito triviale, una specie che diventa stanziale per ubriacarsi; qualche rinforzo negativo ci ha condotto verso / impedito l’estinzione più volte rasentata. Non possiamo, né potremmo ora avere profeti o sciamani perché anche questi sarebbero “attori” accecati dal presente, tramortiti dal monossido; dubito, da sostenitore, che la tardiva chiamata in gioco della psichedelia, possa squarciare le massicce fibrosità del conformismo accademico, della spocchia autoreferenziale, ora che le pareti della bolla si sono inspessite. Forse soffocheremo in essa e il teatrino cui assistiamo è solo una suggestione proiettata sulla superficie interna della bolla, come in un visore VR; tutte le strategie, anche le più promettenti, s’impantanano nell’hype - quando godono di un fugace clamore - oppure sfioriscono; altri si rifugiano nella retromania e i nostri immaginari sono manipolati da showrunner, che percorrono la "scia chimica" della massimizzazione dei profitti. Prendendo atto di tutto questo, della nostra scarsa confidenza con la morte e la malattia (la prima che non è mai annichilazione, la seconda che può rivelarsi opportunità) il primo passo da compiere è, a mio modesto parere, quello di riconoscere la nostra inadeguatezza: non come atto di contrizione. Non è un mea culpa. Sylvia Plath lo ha fatto con discreti risultati: il suicidio dei visionari è incidentale, la follia indispensabile o tuttavia inevitabile; molti che hanno detto qualcosa di sensato erano pazzi, molti si sono ammazzati o sono morti prematuramente: non formalizziamoci sui destini del vettore virale. Nessuno si era mai posto finora il problema della rispettabilità, o della credibilità come oggi la intendiamo, a stringere ulteriormente la bolla, fino a farla diventare un sacco di plastica in testa: che qualcuno speri in un orgasmo da soffocamento?  Ah, quelle gratificanti pulsioni anaerobiche delle vite primeve, il revival di un brivido procariota! Direi di essermi dilungato sin troppo. Calcio anch’io la palla fuorigioco a questo punto, ma prima ci scrivo sopra “inadeguatezza”. Qualcuno la raccoglierà o la prenderà in testa e mi manderà affanculo: intanto il primo paradigma che propongo è questo. Non è dato sapere se ciò produrrà sviluppi salvifici per la specie o il pianeta, o sarà l’ennesima puzzetta letteraria che va a incrementare gas serra, ma ciò è irrilevante. 


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