sabato 13 novembre 2021

Dune o altrimenti Cyclonopedia

Negarestani nel suo "Cyclonopedia" di recente tradotto in italiano, offre una serie notevole di spunti e fra questi due in particolare mi sono rimasti impressi: il declino infinito ed il deserto

Il filosofo iraniano riconduce questi concetti principalmente al Medio Oriente, inteso non solo come territorio in senso geografico o come spazio e stratificazione di civiltà, culla del modello stanziale e agrilogistico, ma anche come un'entità senziente attraversata da una concentrazione sotterranea straordinaria di forze petrotelluriche: il Medio Oriente è il nostro Arrakis ed esattamente come Arrakis, il suo cuore è un deserto, distesa arida, secchezza delle fauci e allucinazione da sete petrolifera insaziabile, piazza di spaccio dove le civiltà post-coloniali e tecnocapitaliste si attestano a rota, nella loro cieca dipendenza energetica incontrollabile, alimentando tutti i conflitti recenti e in corso, i travagli dei popoli che lo abitano, attraendo nuove generazioni di giovani combattenti stranieri (foreign fighters) disposti a tutto, persino a consacrarsi all'oscurantismo integralista e al martirio, pur di sfuggire all'incubo annichilente di un occidente tossico e in cui sono cresciuti da emarginati: molti di loro infatti sono europei che hanno "radicalizzato", talvolta durante l'esperienza carceraria, che magari prima non erano neppure credenti. Un percorso simile a quello di Malcolm X, in un contesto e con esiti differenti, documentato in numerosi studi sul fenomeno della radicalizzazione in Europa; in un certo senso ricordano i Fremen, per il rigore, l'abnegazione, la spiritualità belligerante, ma di Dune parlerò fra un attimo.

Partiamo dal declino infinito, circolarità e cold turkey, attesa in dolente astinenza, che richiama il concetto di orbita, la “caduta infinita” senza impatto: un “delicato equilibrio” – sempre citando Dune. Affolliamo una civiltà in orbita degradante e si avvicina il tempo in cui si spezzerà il filo esilissimo che ci mantiene sospesi fra le forze in gioco: l'attrazione gravitazionale, la spinta centrifuga a smarrirsi nel cosmo o precipitare e ardere in una rapida fiammata appena raggiunta l’atmosfera, i suoi strati via via più densi che ne disperderanno le ceneri, senza che rimanga nulla di rilevante. Incenerimento istantaneo, dopo una lunga agonia e tossicodipendenza globale per la quale non paiono esistere volontà o terapia di disintossicazione: c'è una pistola captiva puntata sulla fronte dell'ignaro mammifero agonizzante che nei suoi deliri di moribondo, rinnova la vieta fissazione di essere fotocopia conforme di Dio. 

Consideriamo anche le molte altre entità, oggetti ed iperoggetti, come li definirebbe Morton, risucchiate dalla medesima dinamica orbitale trascinando seco iposoggettività critiche ed entità non umane, di cui l’umanità è – come ci ricorda Braibanti – suo malgrado un segmento: nella fase di megalomania umanista, tipica di tutte le fasi iniziali di esaltazione narcotica, abbiamo creduto di non esserne parte, nonostante le larghissime esibite miserie che si generavano accanto all'accumulo di ricchezza; siamo parte di un groviglio di orbite basse, degradanti ad libitum. Quanto durerà l'infinito? (che è solo percezione o paranoia di infinito nella rota) Difficile a dirsi: qualcuno sostiene fino al 2050, nella forma in cui lo conosciamo adesso, ma è dal Grande Evento Ossidativo che la vita crea sconquasso, nella placida desolazione dell’Inorganico, e anche contro sé stessa; che genera nuove e lascia decadere vecchie orbite, come il cuoco pasticcione che mette troppo cibo al fuoco e fra i vapori, annebbiato, si assopisce e sogna la ricetta perfetta che non esiste, mentre mezze pietanze bruciano in padella. Tutto ciò che è vivo è protagonista di rivoluzioni e catastrofi, ne racchiude il movente fin dal suo primissimo discostarsi dalla materia inerte. 

La vita vegetale, come la descrive Coccia, riconfigurò il pianeta dacché emerse dagli oceani; la sua negoziazione infinita con il regno dei funghi, descritta da Sheldrake, creò le complesse micorizze arbuscolari e altri network fra regni diversi (vertebrati, invertebrati, microbi ecc…) in regimi variabili di cooperazione e competizione; la recente creazione attorno alle "domus" neolitiche, di campi di attrazioni multispecie, che descrive Scott, ricalca lo stesso schema: qui si innescarono contemporaneamente sia i primi processi di domesticazione, simbiosi e stock, che attrassero commensali — non invitati — attirati dall'abbondanza della risorsa facile, sia le prime zoonosi, i salti di specie, il parassitismo, le epidemie. Totale furia vitalista: inestricabili spinte alla conservazione e all'adattamento, la lotta contro l'entropia che crea entropia, come aree cicloniche dove si scontrano correnti fredde e calde generando uragani.

Quando Elon Musk – organismo vivente mosso da quella stessa furia vitalista insopprimibile– punta a Marte, punta a un futuro già scritto nella narrativa fantastica — così sono nati i miti? – Herbert non solo creò un mondo infinitamente più sfuggente e attuale di quelli prodotti in altre saghe titolate (penso a Tolkien) ma anche una prodigiosa profezia che si autoavvera, capace di suggestionare figure notevoli del panorama culturale internazionale, in primis Jodorowsky che impalcò un progettone che fallì sul nascere, le cui sole premesse hanno condizionato la fantascienza da quel momento in avanti; il sontuoso prontuario di quel kolossal mai realizzato – dove l'imperatore dell'Universo avrebbe dovuto essere interpretato da Salvador Dalì – scatenò alcune delle più potenti visioni di Lynch e, dall'incompiuta magnificenza (per questioni di budget) del Dune lynchano, si è sviluppata una linea di contagio che è arrivata ad investire oggi l’impavido – il folle? il masochista?– Villeneuve, spericolato come i suoi omonimi piloti, nel riprendere, rigenerare miti monolitici – come Blade Runner –  senza tuttavia, nel caso del nuovo Dune (che comunque mi è piaciuto moltissimo) riuscire a prodursi nemmeno lontanamente nelle visioni weird di David Lynch, l'unico capace di inoculare manie stranianti e tic nei suoi figuranti, delineare le gioie sadiche del Barone, dei suoi accoliti e dei suoi psicotici nipoti, in un impero neofeudale a diecimila anni da adesso, dove una sorta di multinazionale intergalattica, la Gilda, si permette senza troppi salamelecchi di dire all’imperatore dell'Universo “Taci! O passerai il resto della tua vita in un amplificatore di dolore”; non si tratta di dettagli di poco conto, in queste visioni è lo stacco fertile fra spettatore e opera, che permette la poiesis futurale, la fascinazione e la credibilità di mondi immaginari retti da leggi diverse e atavici, identici appetiti, che solo tramite lo straniamento costituito dai costumi, le scenografie, la gestualità, le azioni, il modo di parlare dei personaggi che lo incarnano, prendono vita. Ritengo che Villeneuve abbia trovato il "lavoro fatto" e per sottrazione ed espansione (il nuovo Dune è diviso in due capitoli) si è mosso in una poetica potente ma derivativa.

Tornando ad Arrakis, mi sono convinto, in virtù di una sincronicità del tutto casuale (l'aver veduto il remake di Villeneuve poco dopo aver finito di leggere l'opera di Negarestani), che sarebbe una buona cosa rileggere e/o rivedere Dune, prima o durante l’approccio al fantasmagorico Cyclonopedia: e veniamo così al secondo concetto (fra i molti: non mi addentro nelle complesse questioni numerologiche) il deserto.

Esso ci attende, prodotto finale della vita, lo spazio zero dove si formano nuove civiltà orizzontali, che demolisce idoli e occulta nel sottosuolo il cadavere oleoso del Sole di Bataille; l’acqua della vita di Arrakis è il petrolio terrestre alla rovescia: l'una è secrezione della larva del verme delle sabbie che si nutre di spezia (vita, origine), l'altro sedimentazione di cadaveri primordiali trasformatisi in idrocarburi, dopo essere stati a loro volta dissipatori termici, trasformatori dell'urlo solare da principio raccolto e trasformato dalle piante, poi dagli erbivori e infine dai predatori (morte, fine); alfa e omega trovano un grembo sotto il deserto. In Dune erano le grandi cavità colme d'acqua "milioni di decalitri". 

L'ibridazione definitiva fra organico e inorganico, fra magico e concreto, fra psichedelico e ordinario, fra vita e morte che si inseguono vermicolari in serie labirintiche di pieni e vuoti; fra lo zero immenso e l’uno monoteista delle religioni abramitiche in conflitto; nel deserto, nella sua grana pulviscolare, si erode ogni residuale dimorfismo, le idee binarie di maschio-femmina, buono-cattivo, bello-brutto, amicus-hostis, ecc… che da un lato ci semplificano la vita, quanto ci affannano nei confronti della complessità irrisolta di tutto ciò che sfugge alla catalogazione bipolare.

Nel naufragio della dicotomia, o meglio del focus strumentale sulle polarizzazioni, dimentico dell’infinito gradient fra di esse, riaffiora l'idea di declino permanente nella concretezza/impalpabilità delle polveri, camuffamento definitivo e ultimo segnale percepibile del ritrarsi ai nostri sensi dell'iperoggetto, sia esso fantastico o fattuale; nella sabbia di Arrakis la spezia, sfuggente e preziosa, nutrimento di Shai-ulud che naviga sotto il livello delle sabbie; la bamba-motore finanziario-status symbol che si cela nei laboratori mimetizzati nelle foreste boliviane; le nubi di cenere vulcanica che impressionarono Ruskin e Turner in quegli anni senza estate che funestarono il pianeta nel suo Early Antropocene nel XIX secolo; la Nebulosità di Bridle, esemplificata nelle formule governative che "non affermano, né possono smentire" nel data overflow non più umanamente elaborabile; il kipple (la palta, la polvere) di Philip Dick, “le ceneri di questo pianeta” del best seller di Thacker… la viscosità dell'iperoggetto che si ritrae, inaridisce e anziché invischiarci come insetti nella resina, rampolla pulviscolare disorientandoci dai tempi del Dust Bowl de "L'urlo e il Furore" di Faulkner, fino alle tempeste di polvere in "Interstellar" di Nolan. A noi non resta che la fuga, strizzare gli occhi, guadagnare confusi uno sperone roccioso, un riparo, un anfratto.

Finita la tempesta, il deserto ci lascia, come in certe cure palliative, la liberazione di percepire nitidamente un termine ultimo e indifferibile, un finale chiuso che retrocronicamente offre n possibilità di essere perseguito, sognando di aver percorso carovaniere desuete e sostato presso oasi e insediamenti di inaspettata prosperità dove furono intessute forme eusociali e politiche che non replicarono il contratto fraudolento fra primati infidi e feroci abbandonati alle loro fobie; non necessariamente la democrazia come ci è stata propinata, ormai alle corde; ma tutto questo è già non-accadutoe allora cosa fare? 

Come dice la Abramovic “process is more important than the result”, perciò cosa contano il passato e il futuro? Altre dicotomie sfinite: la nostra utopia di tossici è in una diversa linea temporale, nel multiverso, nelle fantasie di uno scrittore che forse intercetta e trascrive cronache di un altrove insondabile dai tempi dell'Interzona; o nell'incompiuto capolavoro pasoliniano, che si intitola appunto "Petrolio".

Nell'azzeramento desertico è il punto di contatto\collasso dei multiversi, si azzera il tempo, i confini perdono significato; il declino diventa infinito perché rallenta il suo moto circolare e riprende corpo l'attesa messianica, superata la soglia del dolore, trepidante perché è il sentire di disillusi e astinenti senza scampo, svuotata di cerimoniali, tesa e immobile; scaramantica perché guardinga e solo i piccoli segni, come indossare correttamente una tuta fremen senza averlo mai fatto, acquistano rilevanza. Il deserto è il luogo dell'iperstizione, la tana dell'iperoggetto, la coperta ondulata, morbida e ostile sotto la quale sappiamo esservi acquattata la verità.

Mi appresto a concludere, ricordando un’altra pellicola iperstizionale degli anni Novanta del secolo scorso, dove queste tematiche vengono anticipate e si riannodano nel contesto della banlieu parigina: “l’Odio” di Mathieu Kassovitz. Il leit motiv del film “Fin qui tutto bene: il problema non è la caduta, ma l’impatto”  riecheggia il declino infinito di Negarestani.

Altre attese si accalcano sul punto zero: Elon Musk che colonizza Arrakis/Marte portandovi un’ordine cleoniano, con lo stesso stile impeccabile ma anodino che hanno le sue vetture; la fuga tragica e demenziale a bordo di una gigantesca cosmonave da crociera, come in Aniara; fusione nucleare + ego dissolution in una botta sola e letale di speedball; acidissima e aristocratica, sua santità la Singolarità bonaria o in altre parole l’umanità che partorisce il suo Dio?

Come Pardot Keynes, l'ecologo imperiale, osservo ed elenco alcuni dei molti declini, dei molti immaginari, il loro intrecciarsi e confliggere e sento montare su tutto la paura di impazzire, la paura del dolore. La paura che uccide la mente, si ripete come un mantra Paul Atreides, addestrato da sua madre, Lady Jessica – appartenente alla sorellanza Bene-Gesserit – a padroneggiare la più antica e potente delle armi, la Voce, violando il patto con la sorellanza, e come si sa, solo attraverso la violazione del sacro precetto innesca il cambiamento. Le grandi saghe elaborate sul finire della civiltà sanno guardare al principio con la stessa intensità delle epopee primigenie, come lo sguardo di un morente che ripercorre si dice, tutta la vita prima di spirare: una parola detta o non detta, può sollevarci o distruggerci, pur non essendo nulla, nulla di fisicamente rilevante, se non vibrazioni che si muovono nell'aria. La scatola del dolore dove la Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam, invita l’ancor immaturo Paul Atreides ad infilare la mano, che egli sentirà ardere e scarnificarsi senza poterla ritrarre minacciato dal gom jabbar, non contiene nulla in realtà, e la estrarrà intonsa. Solo la voce ci condiziona, ci minaccia, ci domestica; ed è sempre una voce a guidarci nella tempesta, nelle nebbie, una voce sconosciuta.



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