La solitude è un verme, una scatola, uno spazio infinito in un corpo finito, un’assenza dove si aspettava una presenza, una spiegazione in una lingua sconosciuta a un interlocutore svanito, il freddo sette della cicatrice inerte che si manifesta sottoforma di spilli sottocutanei come una bambola voodoo alla rovescia, la parola sulla punta della lingua quando ne abbiamo smarrito i presupposti e il ragionamento si è infranto in nembi come una tromba d'aria che si smonti delle sue correnti vorticose; il cacciavite quando chiedi il pane, l’acqua che si nega al cretto del fiume arido che si snoda verso il mare: lagune melmose, sabbiosa insolenza che affiora, amicizie sabotate, silenzio, molto spesso è silenzio perché la voce senza ascolto esaurisce la sua ragion d'essere e così gli organi fonatori si atrofizzano. Ma se fosse solo questo, non sarebbe un gran male: è che la solitudine ti cerca, è la miseria che ti cerca come un amante molesto, come un esattore e come un predatore brama la sua preda. Anche così si potrebbe accettare: ma se la solitudine fosse la materia stessa del tuo corpo, delle tue cellule, e come queste cellule mutasse incontestabile nella sua replicazione? Se fosse un marchio nucleotidico impresso alla nascita, non meno del colore dei tuoi occhi o dei tuoi capelli e pur circondato da mille persone, trovassi in quelle loro stesse cellule, la medesima barriera, il respingersi dei poli uguali della calamita, la repulsione. E se inoltre fosse un destino? La trama già scritta e prevedibile di una storiella come tante, quei sentieri che si sa dove portano, ben tracciati e segnati: una sicurezza in fondo che protegge da psicosi e falsi allarmi. Un abbraccio che ci si dà quando il freddo alieno dell'altra certezza che abbiamo c’investe e ci stropicciamo con le mani algide sotto le braccia, a riscaldare per frizione meccanica quelle cellule riottose al calore quanto ne sono affamate. Soprattutto, qualsiasi cosa essa sia è irrimediabile e beffarda come ogni consolazione. Forse, incontaminata dal vociare e dai sussurri, dalle promesse che si fanno ubriachi, sarebbe anche tollerabile: non avesse aspettative, reclami, interruzioni festose quanto sospette, fosse quieta come un lago, appena increspata da brezze di vita, se ne stesse al suo posto a occupare crateri e vuoti che non si possono riempire d’altro. Forse così, come quest’ultima estate senza nessuno, a braccetto alla paura e alla volontà come chi è zoppo, o mutilo: le due brave comari brutte, una per parte, a sostenere l'afflosciata complessione nel suo ramingare. Era meglio così dell’illusione, degli specchietti rilucenti di amicizie e amori famelici, dipendenze minori e insidiose, sigarette dal balcone che tracciano una parabola di fumo ed esplodono scintile sulla strada. Qualche babbeo saggio lo capì bene e se ne venne fuori con la frase “meglio soli che…” il resto è astioso, piuttosto stupido, orgoglioso. Non c'è un “meglio” è così punto: è carne non meno dell'attesa di finali noti; non condizione, né scelta. È tutto quello che sei, che hai, che avrai, dalla culla alla tomba. È la guida esatta che conduce dal vagito al rantolo, e pur prossimi o lontani che siano l'uno dall'altro, il solo dato ci è noto di quelle smorfie scomposte, speculari, parallele a generare infiniti riflessi che degradano nell'oscurità, riflessi di una figura solida che non c'è, o se c'è è in fuga, così la foto viene mossa, questa antica ossessione di cogliere l'attimo, di esser parte di un disegno.
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