È fisiologico, come la pelle che si inflaccidisce, portiamo il peso sulle nostre spalle del trascorrere, lo zaino di livore, frustrazioni, occasioni mancate per pigrizia o per arroganza; mettici i dolori, le malattie, le perdite irrimediabili che a tappe costellano la vita, quelle note (i nonni, i genitori, talvolta qualche amico) e i “cigni neri”, le disgrazie improvvise; però anche senza drammi eccessivi, questo vivere in attrito ai giorni, per sfregamenti, si produce in un logorio, che non richiede particolari eccessi e vite spericolate; anzi spesso è li, dove un cuscinetto non viene da tempo lubrificato, o un freno a mano impercettibilmente tirato consuma i battistrada, che ci lascia scalzi e miserabili la vita, per quanto tutto il nostro ambiente affermi il contrario. Sono dimenticanze, mancate manutenzioni, nelle furie dei giorni. Nonostante si abiti luoghi ameni e pacifici, anzi a maggior ragione, si diventa ermetici, uggiosi, infine nebulosi. Si vorrebbe che questa bruma degli anni, queste fumigazioni di parti meccaniche in sofferenza, non venissero mai a offuscare l’AMICIZIA che si sostiene unanimemente essere un patto inossidabile, esente dalle temperie che si è attraversato e che, in larga parte è così; o così ci piace raccontarcelo in ossequio a una tenerezza egoistica per figure del passato che hanno il merito indubbio di rendercelo vivo. Un'avaria empatica, di occhi negli occhi, voci su voci, che si intrecciano senza età, senza il rosa delle cicatrici, il viola e il nero delle piaghe, il bianco giallastro delle callosità e delle pelli secche…colori, dolori.
Una tosse che mescola catarri di nicotina geologici, un fiato greve di dentature scollettate, o spezzato da brevi salite, dove la voce si opacizza, le parole stese sul filo come panni che sibilano o sillabano al vento, sussurrando moccoli e pianti a cadenzare passi grevi, il torace che si piega in dentro, quando, di ritorno dalle passeggiate, abbandono ogni spavalderia ortostatica, ogni apertura che giovi al moto delle clavicole, al coinvolgimento dei lombi, dell'addome…
Il ricordo, specialmente quelli piacevoli della giovinezza; ma chi ritroviamo una volta ritrovati i “vecchi amici”? In realtà è un azzardo come coi nuovi; sotto patine bonarie alligna la finzione, e coi nuovi succede spesso, considerata l’epocale propensione alla retorica, alla doppiezza, alla nebulosità, che in questa nebbia anche i nuovi come i vecchi diventano fantasmi, proprio nel momento esatto in cui si palesano; e io agli occhi loro, carcassa di qualcuno che non esiste più da tempo; come un insetto che si affanni nel tentativo di indossare di nuovo la sua crisalide. Cosa resta nell’immediato se non l’inconsistenza di questo agire, che definisce e conclude tutto il nostro essere qui ed ora? La luce affettuosa dei ricordi che si evoca, trapela velata dai vapori di cui sopra; in taluni e avvilenti casi, del tutto eclissata. Permane la sterile e ostentata rappresentazione del come siamo ora, e ora, ecco la gran scoperta dell’acqua calda e dei suoi vapori, non siamo nulla. Non ancora: esistiamo solo come accumuli spettrali, disordinati, contraddittori di repulse e perdoni che si risolsero in silenzio tombale, politraumatizzati fra aderenze e scollamenti, proiettiamo un’immagine diafana; emergiamo dalla nebbia, spesso per esprimere il solo nitore della nostra malvagità; abbiamo ad oggi tante scuse: il covid, l’isolamento, che fanno da cassa di risonanza atroce alla totale ingovernabilità delle nostre vite. Alla fine l’emersione del primate (geloso, invidioso, furioso, stupido, della sua inservibile limpidezza) è l’unico tratto autentico e positivo della “rimpatriata” e si può tornare a casa confortati nella nostra scelta di romitaggio.
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